“ Ma non ti senti un po’…”coglione”? ”
Ieri mi è stata fatta questa domanda riguardo al mio lavoro.
” Certo mi sento sempre un po’ “coglione”! ” – rido.
Dall’altra parte vedo che non ride. La domanda è seria. ‘Azz!
“ Di cosa mi dovrei sentire ”coglione’’? ” – rispondo.
“ Bho…ma non ti senti scemo mentre reciti? La gente ti giudica mentre fai un personaggio…magari non ti ricordi una battuta! Non hai paura? ” – ribatte.
Al che sorrido. E rispondo semplicemente “ No, non ho paura di dimenticare una battuta e non mi sento scemo. ” Perché dovrei?
Io cerco di dare il meglio che posso in quel momento in scena, cerco di scavare dentro di me,
se poi riesco a regalare un’emozione a qualcuno e questo ride o piange o si sente scosso, bhe, ho fatto il mio lavoro. E sono felice, contento, gratificato.Sì, è vero, fare l’attore non è un lavoro che produce qualcosa di tangibile, non produco automobili, pezzi di ricambio, software gestionale o microprocessori. Non produco nemmeno qualcosa che si possa mangiare o bere. Siamo esperti di finzione, fingiamo per vivere. Molto più spesso per sopravvivere. Ma non è né più né meno quello che moltissime persone fanno mentre vivono la vita di tutti i giorni. Noi lo facciamo per professione (sul palco). Ho finto di essere re, di essere un rapitore, di essere Dante Alighieri, Hoelderlin, un meccanico americano degli anni ‘50, un extracomunitario dell’est europa. Ho finto di essere esperto di medicina, scienze bancarie e giurisprudenza. La finzione, il ”fare finta di”, la recitazione, l’acting, non è solo giocare, divertirsi, fare gli “scemi” sul palco. È anche quello, certo: amo prendermi in giro, divertirmi e far divertire. Ma è soprattutto immaginazione, è immaginare possibilità. È immaginare mondi, è immaginare qualcosa che non esiste, ma che potrebbe esserci. È vero l’attore non produce un oggetto che puoi toccare, l’attore produce la possibilità di rendere vero qualcosa che è fantasia. Immaginazione e possibilità.
Mi ricordo molto chiaramente il mio primo tentativo di recitazione. Avevo sette anni e la maestra delle elementari mi aveva dato il ruolo di astronauta alla recita scolastica. Mi ricordo perfettamente quanto impegno ci misi nel creare il casco. Avevo un casco integrale in plastica (ero appassionato di F1 in quel periodo!) bianco e nero, con un minuscolo adesivo della Elf sul lato destro. Presi la carta stagnola di casa e cominciai a rivestire il casco di carta. Wow! Poi presi una tuta e mi feci rivestire di carta stagnola. Ari-wow! Mi sentivo utile, importante, unico per lo spettacolo. Con passo lentissimo (“al replay”, usavo dire, oggi più professionalmente direi in “slow-motion”) sotto le note di “Also sprach Zarathustra” di Strauss (più comunemente nota come la colonna sonora di “2001: Odissea nello spazio” rifatta da Alex North). Mi ricordo come a casa di mia nonna mi mettevo in una stanza e con il casco in testa percorrevo “al rallentatore” la scena e non avendo la musica, cantavo “tataratatatta, tattaratatatta…tattaratattaaaa”. Mi sentivo volare, mi sentivo sulla luna, mi pareva di fare la storia del mondo. Mi pareva di essere davverò lì, piantavo la bandiera e guardavo la mia tuta scintillante. Ero un astronauta. Il più felice di tutti. Ero in trance, non so se per il caldo all’interno del casco, ma mi sentivo davvero in trance. Non c’era più la mia stanza, non c’era più la palestra in cui piantavo la bandiera e fingevo di essere sulla Luna. Io ero sulla Luna. Non c’erano gli spalti con i parenti che guardavano gonfi d’orgoglio. C’era quella musica, c’era la camminata “al rallentatore”, c’erano i miei compagni che con me venivano sulla Luna. Non lo dimenticherò mai quel momento.
A dieci anni mi divertivo a imitare gli attori famosi, quelli che vedevo in tv, mi divertivo a studiare piccoli sketch, da Verdone a Bombolo da Lino Banfi ad Alberto Sordi. Mio zio si divertiva come un matto. Mi divertivo a imitare anche le camminate delle persone, soprattutto gli anziani, mi affascinavano. E la cosa incredibile era che potevi sentirti vecchio in un attimo. La schiena curva, le ossa stanche, il passo trascinato. E’ una sensazione che mi ricordo ancora. Era divertentissimo!
Questo mi ha sempre affascinato della recitazione: l’empatia. E più studio, più lavoro, più ci metto le mani dentro, più mi piace. L’empatia. Dal greco: en- (dentro), pathos (sentimento). È un legame di partecipazione emotiva. È qui il teatro, il cinema, la recitazione. Un legame, una partecipazione, un’emozione. All’inizio l’empatia era il legame di partecipazione emotiva che legava l’aedo al suo pubblico. Poi questo concetto si è esteso alla vita quotidiana, alle relazioni umane, fertili e uniche. Essere con l’altra persona richiede un lavoro su di sé costante e quotidiano.
All’inizio ho lavorato su di me a livello esteriore, insomma cercavo di essere il più affascinante possibile. Mi sono tagliato i capelli in un certo modo, poi me li sono fatti crescere, poi li ho decolorati, mi sono fatto crescere un po’ di barba, il pizzetto. Poi li ritagli con il ciuffo a destra, poi a sinistra. A volte ho cercato anche di impostare la voce in un modo più interessante, sapete, per un maschio una voce più profonda è più interessante di una più alta (sicuramente alle donne intriga di più una voce più grave). Poi ho capito che le scelte e il lavoro più importante non è quello esteriore, ma quello interiore (processo su cui continuo a lavorare ogni giorno). Sicuramente ho lavorato e sto lavorando sulla parte più morbida del mio carattere. Diciamo che ho un temperamento naturale spigoloso, un po’ autoritario, a volte supponente e dai toni vivaci. Ho imparato e sto imparando tutt’ora a coltivare la dolcezza, la disponibilità. Grazie ai miei amici e compagni di viaggio, grazie ai miei Maestri e al periodo di studi in Accademia, grazie agli stimoli dei miei amici, grazie a tutti loro, perché durante quel periodo sono uscito “fuori di me”, e poi mi sono ritrovato. Perché grazie a loro capisci che non hai bisogno di fingere, puoi essere quello che sei. Incazzoso, selvaggio, divertente, duro, aggressivo, allegro. Mi hanno permesso di essere ogni cosa (a volte anche con sofferenza). Continuo a imparare nel mio lavoro. Studio il mondo dei sentimenti, e cerco di dare carne a questi sentimenti e alle parole. Ecco ciò che produco o cerco di produrre. E cerco di produrlo attraverso l’empatia verso il mio lavoro, verso la vita e verso le persone a cui voglio bene e che amo.
Prendere una laurea mi ha reso, di certo, più sicuro e orgoglioso su alcune cose. Recitare mi ha aperto l’anima.
Un grande abbraccio a tutti.
Un grande abbraccio a Lucio. Disperato erotico stomp. Ciao.
1 commento su “04-03-2012: l’empatia e la recitazione”
Fin da piccolissimi ci rendiamo conto che possiamo fingere ed è bello.
Perchè fingendo diamo sfogo alla fantasia e per un poco riusciamo ad essere quello che non siamo, o quello che vorremmo essere.
Non per niente da bambini, in molti giochi si finge di essere qualcuno o qualcosa ( a me piaceva tantissimo giocare con una mia cuginetta dove io fingevo di essere il dottore ).
Purtroppo ci hanno sempre insegnato che fingere non è cosi giusto (non si dicono le bugie) e che dobbiamo essere solo noi stessi. MA CHI SIAMO NOI ?
Forse è per questo che ci piace tanto vedere recitare.