Elizabeth Gilbert – Come nutrire il processo creativo ed il genio.

Chi non ha mai, almeno una volta nella sua vita, avuto una relazione malsana con la mitica Musa ispiratrice?

Qualche tempo fa ho avuto modo di vedere il video di un discorso tenuto da Elizabeth Gilbert, l’autrice di “Eat, pray, love” (“Mangia, prega, ama” – Ed. Rizzoli). La scrittrice parla di come un artista può affrontare la paura, il successo, l’orgoglio e il fallimento. L’idea di fondo delle sue parole è interessante, può essere condiviso o meno, ma sicuramente fa nascere diversi spunti di riflessione.

In sintesi, per Elizabeth Gilbert è errato pensare che solo poche persone sono dei genii, in realtà tutti noi abbiamo un genio (esterno a noi). Nel pensiero occidentale si è instaurato il concetto per cui l’Artista è un genio. Un’idea che trae la sua origine dal Rinascimento e dall’Umanesimo, periodo nel quale l’Uomo viene messo al centro di tutto l’Universo, sopra tutti gli dèi e sopra ogni forza trascendentale. In pratica la creatività dell’Uomo dipendeva solo ed esclusivamente dalle sue forze e da se stesso: “il genio è dentro di sé”, si diceva. E da allora si cominciò a parlare dell’Artista come di un genio piuttosto che di una persona con del genio. 

Bene, cosa dice la Gilbert per spiegare la sua idea? Dice che è una scrittrice, scrive libri per professione. Ma non è solo una professione, è anche passione e fascino. Ora però, tutto il clamore e il successo ottenuto con il libro “Mangia, prega, ama” l’hanno portata a rivedere il rapporto con questo lavoro. Perché? Perché ora tutti le chiedono se non ha paura di continuare a scrivere, ma di non arrivare più alla stessa bravura e notorietà. Ovviamente anche per lei è una paura che ci può stare nel suo lavoro. Lavoro che, per inciso, si sente nata per fare. A questo punto però nasce una domanda:  perché se fai l’artista, nasce spontanea questa domanda sull’angoscia e sulla salute mentale del creativo, mentre non è così naturale, se tu fai l’ingegnere o l’avvocato? In effetti, dice, nei secoli gli ingegneri come gruppo non hanno di certo guadagnato la reputazione di essere alcolizzati maniaci depressivi.

Bhe, di sicuro scrittori, attori, artisti e creativi di ogni sorta, hanno spesso la reputazione di essere enormemente instabili mentalmente. Che ci siano state morti e disagi mentali per molte menti creative è un dato di fatto e la statistica è lì a confermarlo. Ma non è che in realtà su questo punto non battiamo ciglio e non ci scandalizziamo “perché abbiamo sentito queste cose talmente a lungo che in qualche modo abbiamo completamente interiorizzato ed accettato la nozione che la creatività e la sofferenza siano in qualche modo legate e che l’arte, alla fine, condurrà sempre all’angoscia”?.

È questo il vero male. Pensare che sia normale che un artista, un creativo sia o possa essere potenzialmente una mente disturbata. E se questo tarlo entra nel quotidiano, tutto sommato poi ci si crede. L’artista stesso ci crede, ed è un pensiero odioso e pericoloso, dice la Gilbert. Meglio incoraggiare le menti creative a vivere e non ad autodistruggersi! La stessa Elizabeth, ammette che forse il suo più grande successo è alle spalle, l’ha già avuto, ma non per questo sarà costretta a bere whisky alle 9 del mattino! La vita va avanti, bisogna accettare ciò che ci capita, e continuare a fare il lavoro per cui ci si sente nati. Il lavoro che fai con passione e voglia. Come quando hai iniziato, eri alle prime armi e anche allora tutto era angoscioso, difficile, quasi impossibile. Come quando eri un giovane studente di Liceo e gli amici di famiglia o i parenti ti chiedevano: vuoi fare lo scrittore? Sicuro? Ma perché non fai qualcosa di più normale e più sicuro? Lo stesso dicasi per gli attori: oh madonna, davvero? Vuoi fare l’attore? E se poi non ce la fai? E se poi non diventi famoso? Come se la celebrità sia la cartina di tornasole di tutto. Forse lo è, oggi, ma quanti oggi sanno chi erano Edmund Kean o Tommaso Salvini?

Quindi paura dopo il successo e paura prima del successo, ma dettata da chi? Dall’artista stesso o dai suoi interlocutori?

Bene, ci siete, tutto ok? Detto ciò, la domanda è, e qui veniamo al punto: come superare questo senso di angoscia se vuoi continuare a fare il tuo lavoro artistico? La risposta è quella di crearsi un costrutto psicologico protettivo. Ma come? E tra un mumble mumble e l’altro la Gilbert ha trovata la risposta guardando al passato. Al mondo greco e romano: vuoi vedere che non erano poi tanto scemi ‘sti antichi…

Nell’antica Grecia e antica Roma le persone non sembravano credere che la creatività venisse dagli uomini. Si pensava che la creatività fosse uno spirito divino che i greci chiamavano “daimon”, demoni. Socrate stesso credeva di avere un demone che gli donava saggezza da lontano. E per i romani era lo stesso, “ma chiamavano quella specie di spirito senza corpo “un genio”. Il che è grandioso, perché i Romani non pensavano davvero che un genio fosse qualcuno particolarmente intelligente. Credevano che un genio fosse questa specie di entità divina che si credeva vivesse letteralmente nei muri dello studio di un artista, un po’ come l’elfo Dobby (l’elfo amico di Harry Potter, ndr), e che venisse fuori ad assistere di nascosto il lavoro dell’artista e a modellare il risultato di quel lavoro.” Una sorta di garzone, di artigiano utile agli artisti.

Fantastico! È proprio questa la distanza di cui parlava prima la Gilbert: quel costrutto psicologico che ti protegge dai risultati del tuo lavoro. E tutti sapevano che era così che funzionava, giusto? Così gli artisti antichi erano protetti da certe cose, come per esempio il troppo narcisismo, no? Se il tuo lavoro era eccezionale non potevi prendertene tutto il merito, tutti sapevano che eri stato aiutato da questo genio incorporeo. Se il tuo lavoro falliva, non era tutta colpa tua, giusto? Tutti sapevano che era il tuo genio ad essere un incapace. Ed così le persone han concepito la creatività in Occidente per molto tempo.

Peccato che poi il Rinascimento (aho, ciò non significa che non sia stato un periodo straordinario e di svolta per il pensiero occidentale!) abbia cambiato le carte in tavole e abbia creato un piccolo corto circuito “artistico”! Certo qui non si vogliono cambiare 500 anni di storia, come dice la stessa Gilbert, però si potrebbe forse apportare una piccola correzione a questo modus cogitandi, no?

Forse l’idea di un daimon che ci assiste ha molto più senso di molte cose sentite per spiegare l’esasperante imprevedibilità del processo creativo. Un processo che non ha comportamenti razionali. È molto più analogico, onirico, e, infatti, può a volte sembrare completamente paranormale.

Daimon, dove sei??? Oh, quando lo cerco non c’è mai…Mi toccherà andare a guardare un DVD!

PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE

Vi lascio con queste interessanti parole della Gilbert, leggetele, sono molto belle, e curiose:

Secoli fa nei deserti dell’Africa del Nord la gente si radunava per delle danze al chiaro di luna, danze e musica sacra che andavano avanti per ore e ore fino all’alba. Ed erano sempre magnifiche, perché i ballerini erano professionisti ed erano fantastici. Ma ogni tanto, raramente, qualcosa succedeva, e uno di questi artisti diventava in realtà trascendente. E so che sapete di cosa parlo, perché so che l’avete vista tutti, ad un certo punto, una performance così. Era come se il tempo si fermasse, e il ballerino camminasse attraverso una specie di portale e non stava facendo niente di diverso dal solito, come le 1000 notti prima, ma tutto si allineava. E all’improvviso non apparve solamente come un umano. Ma si accese dal didentro e da sotto illuminato nel fuoco della divinità.

E quando questo succedeva, ai tempi, le persone sapevano ciò che era, lo chiamavano col suo nome. Congiungevano le mani e cominciavano a cantare, “Allah, Allah, Allah, Dio, Dio, Dio”. Quello è Dio!

 Curiosa nota storica: quando i Mori invasero il sud della Spagna, presero questa abitudine con loro e la pronuncia cambiò nei secoli da “Allah, Allah, Allah” a “Olé, olé, olé”, che ancora potete sentire nelle corride o nel flamenco. In Spagna, quando un artista ha fatto qualcosa di impossibile e magico, “Allah, olé, olé, Allah, magnifico, bravo,”: incomprensibile, eccolo, uno scorcio di Dio. Ed è grandioso perché ne abbiamo bisogno.

Ma, il problema arriva il giorno dopo, per il ballerino stesso, quando si sveglia e scopre che sono le 11 del mattino di Martedì e lo scorcio di Dio non c’è più. È semplicemente un mortale con gran male alle ginocchia, e forse non riuscirà mai più ad ascendere a quell’altezza. E forse nessuno canterà il nome di Dio ancora mentre gira, e cosa quindi deve fare col resto della sua vita? È difficile. Questa è una delle riconciliazioni più dolorose da fare in una vita creativa. Ma forse non deve per forza essere così angosciante se riuscite a non credere, anzitutto, che gli aspetti più straordinari del vostro essere vengono da voi stessi. Ma credeste semplicemente che vi vengono dati in prestito da una inimmaginabile fonte di questa squisita parte della vostra vita che dovete poi passare a qualcun’altro quando avete finito. E, sapete, se la pensiamo in questo modo tutto cambia.

(traduzione di Elisabetta Proserpio)

Eccovi il video originale, gustatevelo (fonte: TEDtalksDirector)

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