Questa sera ho visto una partita di calcio, ma non una partita qualunque, bensì la finale di ritorno dei playoff di serie B Novara-Padova (“‘sti cazzi”,dirà qualcuno): chi vince approda in serie A. Ai più una partita di poca importanza, non una finale di Champions League, non una finale mondiale, né tanto meno una partita tra squadre di prima fascia del campionato italiano di Serie A. Ma non è stata una partita qualunque. Ha vinto una squadra, il Novara, che da 55 anni non tornava nella massima serie. Ebbene, perché non è una partita qualunque?
Lo spettacolo era talmente avvincente, pieno di pathos, che sono rimasto incollato alla tv a vedere anche i commenti e le interviste eccitate dei calciatori e dei dirigenti. Quello che ho visto e sentito è stato qualcosa di diverso dal solito, qualcosa che andava al di là dell’aver raggiunto un risultato, dell’aver vinto un trofeo. Erano parole di giubilo sì, ma erano piene di consapevolezza, parole di ringraziamento soprattuto ad un gruppo di uomini veri. Uno dei giocatori novaresi, Alberto Maria Fontana, detto Jimmy, portiere definito “folle”, estremamente estroverso, ha così parlato dei suoi compagni: “Questo è un gruppo vero, fatto di uomini con le palle con il filo spinato, qui non esistono titolari, panchinari o chi va in tribuna, qui ci sono 25 uomini prima di tutto, non sono solo calciatori. Ed è importante, ognuno conta, ognuno è importante.” Allora l’intervistatore al carismatico portiere ha chiesto: ” E tu quanto sei importante in questo gruppo?”. Jimmy ha chiosato: “Io: un venticinquesimo!”, dopo di ciò si è messo goliardicamente a mordere la testa dell’intervistatore. E via urla di gioia ed entusiasmo. E ancora tutti hanno sottolineato l’importanza di questo gruppo coeso, in cui non esistono prime donne e comprimari. Piccola nota: Jimmy, è il portirere di riserva. Cristian Bertani, bomber azzurro, a caldo, a vittoria appena conquistata alla domanda “ti senti l’artefice di questa cavalcata vincente?” ha risposto davanti alle telecamere “qui, tutti siamo artefici, prima di entrare ho abbracciato un mio compagno che andava in tribuna e a lui ho detto: siamo qui per te, grazie a te.” Ma molto cavallerescamente non ha voluto rivelare il nome del compagno. “Lui sa chi è, va bene così”. Il capitano della squadra davanti alle telecamere: “E’ incredibile, sono arrivato qui 5 anni fa, e ho trovato un ambiente, delle persone, dei compagni, che mai mi era capitato di incontrare in tanti anni di carriera, è qualcosa di speciale.” Altri sottolieavano l’importanza della dirigenza e dello staff tecnico: persone preparate che hanno un progetto preciso e a cui si sono sentiti di dare fiducia. Altra piccola nota, nel 2009-2010 la squadra militava in Lega Pro (ex serie C).
E cosa c’entra una partita di calcio, una squadra di calcio, con il teatro? Cosa c’entrano le parole del tal o tal’altro giocatore? C’entrano, perché non sono state banali, dopo una vittoria così (per chi vuole può spulciare su google a riguardo della “favola Novara”, così come viene definita, in realtà è frutto di organizzazione e precisione). A mio avviso c’entrano e pure parecchio.
Il teatro è uno spettacolo, così come il calcio. Il teatro, nelle sua fondamenta, è un evento di massa (anche se ormai ha valenza di nicchia, ahimé). Il teatro è fatto da un gruppo di attori, che agiscono come una squadra, né più né meno, e hanno un risultato da raggiungere: rendere viva la scena con onestà, e una certa cavalleria nei loro stessi confronti e nei confronti del pubblico. Una compagnia non è fatta solo dagli attori e dal regista, ma anche dai tecnici, dalle sarte, dall’organizzazione. Le parole dei giocatori ancora mi risuonano nelle orecchie. E ancor di più nella pancia e nel cuore. Quanto è importante in teatro il lavoro di ensemble, quanto è importante che l’attaccante corra in difesa se un compagno perde terreno. E cos’è un compagno? Quante volte usiamo questa parola, spesso abusata. Etimologicamente un compagno è qualcuno con cui condividere lo stesso pane (cum panis). Condividere lo stesso vitto, significa essere partecipi della stessa fame. Cibarsi degli stessi valori e degli stessi obiettivi. Questo è un compagno: con-divisione. Questo è il senso del gruppo. Spesso si vedono in scena compagnie formate da 10 attori, ma non da un gruppo. E spesso, questi spettacoli non ci fanno vibrare nulla dentro. Non ci modificano, come spettatori. Mentre uno spettatore va a teatro con la speranza ultima di potersi modificare durante lo spettacolo, con la speranza di poter trovare quel qualcosa che gli cambi il punto di vista con cui guarda il mondo, fosse anche solo un sorriso sincero e di pancia.
“Io conto per un venticinquesimo”: ognuno ha il dovere di dare il suo contributo. Anzi “chi sta in tribuna, durante la settimana si allena più duramente per poter ottenere la partita successiva la maglia da titolare”. Questo è lo spirito giusto. Lo spirito che ti migliora, che ti spinge a migliorare come uomo e certo anche come atleta o attore.
Anche se non ci sei in quella scena o non fai parte dei protagonisti, non significa che il tuo lavoro non sia importante. Anzi. Ci sono ruoli con poche battute, ma che sono fondamentale per l’economia di uno spettacolo, per la buona riuscita di una scena. E spesso, se agiti con onestà e generosità, sono quelli che il pubblico meglio si ricorda. Ma spesso molti pongono davanti il proprio ego, la voglia di mostrarsi (che certo fa parte del lavoro dell’attore, non lo nego) ma quando va in primo piano rispetto al resto, significa che qualcosa si sta perdendo nel processo artistico.
Mi hanno sempre insegnato che “non esistono grandi parti o piccole parti, esistono grandi attori e piccoli attori”. Spetta a noi scegliere da che parte stare. Io credo nel valore del gruppo, credo nel senso di appartenenza che un vero gruppo crea. Credo che per arrivare a questo senso ci voglia grande maturità, grande senso di umiltà e grande passione per ciò che si fa.
Anche se non si è in scena fisicamente, un attore della compagnia fa parte di quella scena. Perché è comunque parte di essa, è parte integrante. Ed è per questo che non ci sono panchinari, titolari o controfigure. Si è tutto lì, si è tutti sul palco, con lo spirito, con la voglia di condividere quel pane che è il palcoscenico, che è il testo, che è il senso dell’Arte. Anche se fisicamente in scena ci sono solo Otello e Ofelia o Amleto e il fantasma di suo padre. Si è tutti a remare dalla stessa parte. Dalla stessa parte. Per qualcosa di più grande di noi, qualcosa di più universale, per qualcosa di più emozionante del nostro piccolo io. Ah, certo, sempre che si stia parlando di teatro, di spettacolo, di Arte, di Vita.
Bene, tanta “merda” (o un più semplice in bocca al lupo) al Novara in Serie A, sperando che continuino con questa voglia, questa passione, questo senso del gruppo e di generosità reciproca, che finora li ha portati lontano, con la gioia e l’entusiasmo negli occhi di ognuno di loro.