Ripropongo questo testo letto sul blog di Teatro Valle Occupato – per far crescere un’altra concezione della vita e dell’arte.

Se non sapete cos’è la realtà “Teatro Valle Occupato” vi invito ad andare sul sito www.teatrovalleoccupato.it. Un’esperienza unica.

Sono le parole di Anatolij Vasiliev, grande pedagogo teatrale russo contemporaneo. Queste sono parole dense. Da leggere e comprendere.

“L’apprendistato teatrale al tempo dei dilettanti”

di Anatolij Vasiliev

Da circa quindici anni a questa parte la professione del regista teatrale ha cominciato a mutare. Oggi chiunque può diventare regista. Se non avete altro da fare nella vita, se la vostra donna vi ha tradito, se siete stufi di leggere libri, se la sola idea di viaggiare vi affatica… insomma, se la noia è diventata insopportabile, allora non c’è che da provare a fare il regista teatrale. Nessun problema: andate in un teatro qualsiasi e dite con noncuranza “sono un regista”. Tanto basta a garantirvi una messinscena. Meno sapete fare, meno conoscenze possedete e più sembrerete rassicuranti, innocui, incapaci di piantar grane. Oggi basta avere un paio di ideuzze per farsi strada in teatro. Purché, sia chiaro, non si tratti di idee nuove. A funzionare a meraviglia sono le idee rubate. Del resto, il ritornello della cultura contemporanea è “ruba il più possibile, sempre, ovunque”. L’insalata mista, chiamata pomposamente collage, è il piatto di cui van ghiotti i bulimici postmoderni. Ai miei tempi, nella Russia ancora sovietica, se sapevi molte cose e avevi studiato a fondo le tecniche della tua professione, potevi sperare che forse, un giorno, ti avrebbero affidato una messinscena. Ora la norma è il contrario: gli autori degli spettacoli teatrali sono spesso dei perfetti dilettanti, per giunta molto soddisfatti della propria “geniale” incompetenza. Osservo questo fenomeno un po’ ovunque: in Italia come in Francia, Spagna, Grecia, Russia… Difficile dire quale possa essere la via d’uscita da questa catastrofe che ha investito la cultura teatrale. Almeno questo so: nei momenti difficili, il teatro deve puntare tutto sulla formazione. Nello stato di emergenza, la pedagogia non è un lusso, ma una necessità: a essa andrebbero dedicate le nostre forze migliori. Che sciocchezza credere che si possa imparare a fare teatro sui libri o sui computer: il teatro è un lavoro artigianale, richiede apprendistato, tecniche da trasmettere nel rapporto diretto, per via orale. La Russia, a differenza dell’Italia, vanta una straordinaria tradizione di formazione teatrale. Da Stanislavskij in poi, si è sempre tentato di creare un sistema unitario di conoscenze basate sull’analisi dell’azione scenica e sul lavoro con il testo drammaturgico. Un regista russo, quando se ne riconosce l’autorevolezza, viene invitato dalle accademie a dirigere un corso di formazione di durata non inferiore a quattro anni. Il regista-maestro si mette alla guida di un’équipe di insegnanti di discipline ausiliari (voce, movimento, ecc.), riservandosi gli insegnamenti principali: la regia e la recitazione. In Russia, dedicarsi seriamente all’insegnamento fa parte dell’etica professionale del regista, è un tassello essenziale della sua professione. Da noi, la prima domanda che si rivolge a un regista o a un attore è “con chi hai studiato?”, “chi è stato il tuo maestro?”. Provate a fare la stessa domanda a un teatrante italiano: sentirete una lista di nomi eterogenei, un elenco di stages formato weekend acchiappati al volo. Insomma, un “romanzo di formazione” frammentato, a volte schizofrenico. Inutile dire che tutto ciò si riflette sulla qualità degli spettacoli. A peggiorare la situazione sono i tempi strettissimi della produzione: è fisicamente impossibile creare uno spettacolo decente in cinque settimane di lavoro. E gli spettacoli scadenti formano scadenti spettatori. In fin dei conti, il teatro attuale mi fa pensare a un ospedale che accetta i malati al solo scopo di farli peggiorare in fretta. Chi voglia fare teatro, oggi, deve avere un forte desiderio di cambiarlo: altrimenti è meglio andare in barca a vela. La pedagogia teatrale richiede pazienza e tempo, molto tempo. La mia maestra, Marija Knebel’, ripeteva sempre che non si tratta di formare un regista o un attore, ma una persona di teatro, in grado di padroneggiarne le leggi. L’apprendimento di qualsiasi arte presuppone un oggetto concreto da studiare: nella musica è il suono, nella pittura è il colore, nell’architettura sono il volume, la linea, la luce. Allo stesso modo, esiste uno specifico oggetto dell’arte teatrale: l’azione. E l’azione non è un istinto, ha ben poco di spontaneo: bisogna studiarne le regole, l’articolazione interna, il ritmo. Se un attore ha una idea non etilica di com’è fatta una azione, sarà in grado di conservare la propria individualità lavorando con i registi più diversi: con quelli imperiosi e accentratori, ma anche con quelli svogliati e ignoranti, con i fanatici della forma o con i patiti delle chiacchiere “profonde”. Per garantire all’attore una certa indipendenza, occorre insegnargli a lavorare sul testo, a maneggiare il dramma. Dobbiano ricavare tutte le istruzioni che ci servono dal testo drammatico, come un musicista ricava tutto dalle note, dallo spartito. Il punto è che in venticinque secoli sono stati scritti innumerevoli testi, molto diversi tra loro. Occorre insegnare all’attore a interagire con ogni tipo di testo drammatico, a riconoscere la sua specifica struttura, a sapere che cosa può trarne. È un po’ come la storia di Mosè che colpisce la montagna in un punto preciso per far sgorgare l’acqua: bisogna trasmettere all’attore la capacità di vedere il punto da colpire per far parlare il testo al di fuori dei clichés. Il primo compito di un pedagogo è portare alla luce quel che di singolare e irripetibile vi è nell’allievo. L’individualità dell’attore non emergerà mai, se l’insegnante gli chiede di imitare un modello, buono o cattivo che sia. La scuola basata sull’imitazione, oggi molto diffusa, preclude ogni vera scoperta. In Europa incontro sempre più raramente degli attori con una personalità autonoma. Di regola, vedo un esercito di militi affaticati che chiedono al loro ufficiale verso dove devono andare e contro chi devono combattere. E’ in corso da tempo una orrenda omologazione. Non capisco più chi ho davanti: questo attore viene da Milano o dalla Sicilia? Ha trent’anni o cinquanta? Che tipo di drammaturgia lo attrae? Quali sono i suoi personaggi preferiti? Quando ero giovane, mi è stato insegnato che il regista deve essere un pedagogo per i suoi attori. Del lungo tempo dedicato alla messinscena, egli dovrebbe dedicare due terzi alla pedagogia, cioè agli attori, e solo un terzo all’allestimento vero e proprio, cioè a se stesso. E’ decisivo quel minuzioso lavoro che Stanislavskij chiamava “educazione al ruolo”. Se abbiamo figli, ci preme capire come allevarli: lo stesso vale per i personaggi. Fare il regista significa seguire la gestazione, il parto e la crescita di un personaggio. Autori come Čechov o Pirandello propongono personaggi inediti, tipi umani molto diversi da noi. Per questo è necessario preparare gradualmente gli attori ad accogliere caratteri e comportamenti inusuali. Esiste la realtà della vita e la realtà del dramma. Sono due realtà distinte che non si compenetrano. Potremmo dire che l’arte dell’attore ha qualcosa in comune con il mestiere del traghettatore, di colui che trasporta i passeggeri da un riva all’altra. Chi insegna quella strana cosa che è la “recitazione” dovrebbe mostrare come si realizza questo passaggio. Il paradosso consiste nel fatto che la persona che “traghetta” è sempre la stessa, mentre il punto di partenza e quello d’arrivo variano di volta in volta. Infine, una banalità non banale: ciò che conta nel mestiere del regista e dell’attore è il dramma letterario. Sennonché, nel teatro contemporaneo regna il più grande disinteresse per la parola. Le parole sono diventate vuote, insignificanti, meri pretesti, nella vita come sulla scena. Si sono trasformate in spazzatura infinitamente riciclabile. Più che parlare, travasiamo questa spazzatura da un secchio all’altro. Non stupisce quindi che il discorso verbale abbia perso la sua centralità nel teatro. Non ci si raccapezza più quando si tratta di agire con la parola. Si privilegiano altri canali espressivi, come il corpo o l’immagine visiva. Eppure, la parola è l’apice dell’arte teatrale, il suo nucleo più complesso e affascinante. La sperimentazione nell’ambito delle arti visive ha un limite, i loro mezzi espressivi non sono infiniti, è facile provare la sensazione del déjà vu. Soltanto dove è in gioco la parola, la ripetizione non è mai veramente ripetitiva.

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1 commento su ““L’apprendistato teatrale al tempo dei dilettanti” di Anatolij Vasiliev”

  1. Io vedo a teatro spettacoli mediocri o ombelicali.
    Spesso non sono di registi improvvisati, ma di registi che hanno studiato nelle migliori scuole e pieni di esperienze nel loro mestiere.
    Sempre più spesso mi sembra che siano delle persone alla soglia della pensione che non hanno più nulla da dire.
    Troppo spesso si fa una corrispondenza necessaria tra l’imparare e il capire, e tra il sapere e il saper fare. E’ la lingua stessa però, che includendo parole diverse per i pensieri diversi, ci dice che invece sono cose diverse.
    Chiunque abbia letto Mamet o Peter Brook, o abbia avuto la gioia di incontrarli, può evincere che quello del sig. Vasiliev è solo un punto di vista e, in quanto tale, parziale. Per quanto mi riguarda, è persino fazioso.
    Credo che la vera carenza formativa nel nostro paese stia tra coloro che decidono chi va in scena e chi no.

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