Su Kostantin Sergeevič Alekseev Stanislavskij e sul suo sistema o metodo (per chi volesse può leggere e studiare i due volumi “Il lavoro dell’attore su se stesso” e “Il lavoro dell’attore sul personaggio”) sono state scritte un sacco di pagine, un sacco di note e molti sono le tecniche di insegnamento a lui riconducibili sotto diversi punti di vista: dalla biomeccanica di Mejerchol’d, al metodo cosiddetto dell’ “Actor’s Studio” (che deve molto a Lee Strasberg, Stella Adler e Sanford Meisner), dagli studi di Lecoq e di Grotowski alle lezioni di Jurij Alschitz (ovviamente tralascio molti altri studi importanti e prestigiosi, ma ne ho elencati solo alcuni per brevità).
Molto si deve al grande pedagogo russo che intorno ai primi del ‘900 ha sviluppato un pensiero che ha cambiato radicalmente il lavoro dell’attore. Ciò ovviamente non significa che non ci siano stati grandi attori prima di Stanislavskij (prima l’educazione attorale era semplicemente affidata alle ore sul palcoscenico, al tirocinio, diciamo così, derivato dall’osservazione in scena e dall’imitazione degli attori più esperti della compagnia), né che il metodo sia una condicio sine qua non per ottenere buoni risultati in scena. Certo è che ha sistematizzato una materia che prima si fondava solo sul talento naturale senza una
metodologia che fornisse strumenti in aiuto all’attore-creatore. Ha in definitiva creato il primo sistema educativo per attori, al di là della messa in scena di uno spettacolo. In quest’ottica quindi l’attore non si definisce solo in rapporto ad un personaggio o ad una piéce, l’attore è tale perché ha una preparazione e una mansione. L’attore è tale perché è una professione e necessita quindi di studio (corretta dizione, interpretazione, canto, danza, improvvisazione…), di precisione e di cura, al pari di un avvocato o di un ingegnere. Senza se e senza ma. All’attore non basta il talento, servono anche disciplina e costanza, sangue e sudore, profondità e passione. Questo è il dato che ne emerge dal pensiero stanislavskiano.In realtà la parola si compone di due parti: il prefisso pere- e il sostantivo –zivanie.
Il sostantivo è derivato dall’iterativo zivat del verbo zit (vivere), ossia zivanie si può tradurre come “vivere per un determinato lasso di tempo”.
Il prefisso ha due differenti significati:
– di ripetizione(da qui il termine re-viviscenza); un esempio più chiaro è il più famoso termine perestroika (ri-costruzione)
– di attraversamento; pereiti significa appunto passare attraverso
Non è propriamente corretto quindi parlare di “reviviscenza”, quanto piuttosto di vita vera, vissuta attraverso e lungo una spazio temporale e fisico, dettato dalle circostanze proposte dall’autore e dal regista della piéce. È momento legato all’esperienza, vera, che attiva e fa uso dei sensi, che fa uso del cuore, della pancia e dei pensieri veri e onesti di un attore. In questo senso il termine che utilizzano gli americani quando parlano di perezivanie (experiencing) è più corretto e preciso e rispecchia maggiormente il pensiero di Stanislavskij.
L’interpretazione, la presenza scenica e la creazione di un personaggio sono molto più legati ad una vera e sincera prova esperienziale e sensoriale che ad un aleatorio atto di reviviscenza, è un atto concreto, reale e che penetra nel profondo l’animo dell’attore, e che spesso può far paura.
Live your life. And share your real emotions on stage!
Per chi volesse approfondire:
F. Mollica, Del significato di perezivanie in Stanislavskij, in “Teatro e Storia”, n.2, Il Mulino, Bologna, 1991